Perchè la Celidonia ha a che fare con san Martino il taumaturgo
articolo di Daniele De Vecchi
L’11 novembre è il giorno in cui si celebra, per la festa di San Martino, la Giornata Nazionale delle Cure Palliative. Una data scelta appositamente, poiché ricorda Martino, militare romano convertito al cristianesimo, diventato vescovo e poi fatto santo, che vedendo un mendicante accasciato a terra e sfinito dal freddo, con un gesto di solidarietà si china e taglia a metà il proprio mantello offrendolo al povero.L’episodio avvenne in terra gallica, ad Amiens, nell’inverno del 338/339. Il pallium, è il mantello divenuto simbolo della spiritualità del prendersi cura, del farsi carico dell’altro, della sua sofferenza. Rimanda a una cura che sa riscaldare, che abbraccia avvolgendo e proteggendo. Mi soffermo ad osservare le numerose opere pittoriche del mantello tagliato a metà e dato al povero assiderato, che nel corso dei secoli hanno affrescato chiese ed ospedali. La leggenda muove dalla storia di Martino, diciottenne ufficiale dell’esercito romano. L’uniforme militare romana, per gli ufficiali in quei tempi, si componeva d’un manto corto in lana, una clàmide, e un grande mantello bianco foderato di pelliccia. L’ufficiale Martino non poteva tagliare il mantello a metà poiché avrebbe contravvenuto al regolamento. Così tagliò la parte interna del mantello, la calda pelliccia. Nei dipinti, in genere, Martino è a cavallo in posa preminente e a terra il pover’uomo. E’ evidente il distacco. Infatti l’espressione pittorica ci mostra che Martino non s’avvicina al poveruomo, non lo sfiora. Ma forse il tocco è tutto nello sguardo, quello sguardo benevolo e accogliente, penetrante che già in molti casi alleggerisce e persino, a volte, può rendere più sopportabile la sofferenza e il dolore. Nei dipinti più realistici i due personaggi sono fuori dalle mura della città immersi in una natura rigidamente autunnale, e persino, in alcuni dipinti, in un panorama innevato. Gli scenari e il gesto solidale evocano e invocano silenzio, che si fa ascolto penetrante dove ogni parola è un di più, dove il cuore parla al cuore (cor ad cor loquitur). Nelle cure palliative si cerca di offrire calore umano, sino ad accogliere, spesso nei silenzi dei degenti e dei loro cari, la loro parte più intima per riscaldarla, facendosi prossimità e porgere briciole di sollievo. Tutti conosciamo san Martino per questo suo gesto, non tutti lo conoscono per l’appellativo attribuitogli: san Martino il Taumaturgo. Già da quando era in vita gli erano stati riconosciuti poteri di guarigione, nell’anima e del corpo (e va da sé che oggi la medicina ha recuperato l’unità tra le due parti di cui l’uomo è formato). Oltre che vescovo fondò una specifica vita monastica (Monachesimo Martiniano), una sorta di “eremo cenobitico”, (da koinohion = vita comune), dedito al lavoro, studio e cura. Nei monasteri si prevedeva la presenza di un infirmarius, un monaco infermiere sensibile, attento e premuroso dedicato alla cura dei malati col distribuire bevande, elettuari, medicine e vari rimedi che la scienza del tempo offriva; gestiva l’infermeria conservando acceso il fuoco, curando l’illuminazione notturna e provvedendo paziente alle richieste di chi si rivolgeva al monastero. Impegno rilevante era la coltivazione di erbe medicinali (simplicia medicamenta) in un orto botanico, hortus sanitatis o “giardino dei semplici”. Anche la Celidonia, da tempo apprezzata, era impiegata in vari usi. Il nome deriva dal greco “chelidón” cioè “rondine”ma nel Medioevo si pensava venisse dal latino “coeli donum“, “dono del cielo”. Siamo giunti al nome della nostra Associazione per la Promozione della Cultura delle Cure Palliative, Celidonia, pianta erbacea povera dall’odore sgradevole, nasce tra macerie e ruderi, sui muri, attigua ai luoghi abitati. Così la medicina palliativa, ultima conquista della cura dei malati inguaribili, si propone di migliorare la qualità della vita rispettando la dignità dell’essere umano fino alla fine, aprendo un orizzonte luminoso di spiritualità, quasi un “dono del cielo”.